Non tutte le ciambelle escono col buco! In occasione della festa di Halloween, ormai internazionale nonostante le sue origini puramente americane, parliamo di marketing mostruoso… ovvero terrificante! E purtroppo non in senso positivo.

Mostruoso infatti non è sempre sinonimo di esilarante. Tra i suoi sinonimi troviamo deforme, bruttissimo, orrendo, orribile.

Il marketing è uno strumento potentissimo che dà modo ai brand di comunicare e comunicarsi mettendo nero su bianco le proprie idee. Ma quanta analisi e ricerca dati c’è dietro le campagne di marketing pubblicitario? In certi casi non abbastanza!

Diffondere un messaggio verso un’audience potenzialmente enorme richiede:

  • il giusto tono di voce
  • un’idea davvero geniale
  • la possibilità di distribuirla con mezzi potenti e idonei
  • un pubblico pronto ad accogliere la/le novità

Quanto una campagna sa essere mostruosa?

A proposito di gusti e pareri soggettivi i dati possono aiutarci solo in parte, perché non sempre è possibile intercettare le reali aspettative di potenziali nuovi clienti. Sul resto dell’elenco però non ci sono scuse…

Le campagne marketing non sono per tutti; è necessario studiare tanto, pianificare un metodo e una strategia, pensare ai mezzi migliori perché l’obiettivo sia raggiunto ed essere anche disposti a modulare, ottimizzare, cambiare il messaggio se poco incisivo.

Di errori ce ne sono stati, alcuni clamorosi come il caso New Coke del 1995, quando la Coca Cola classica fu soppiantata da una nuova ricetta, fallimentare e per l’appunto mostruosa, che costrinse il marchio al ritiro della nuova bevanda dal mercato nel 2002.

Ma ecco di seguito altri fiaschi commerciali, magari meno conosciuti, che ci fanno riflettere su come i brand falliscano alcuni tentativi di pubblicizzarsi.

Qualche esempio di campagna FLOP

CARTOON NETWORK E GUERRILLA MARKETING 2007

Per il lancio di un loro cartone l’equipe di Cartoon Network decise per il guerrilla marketing, un metodo che richiede alcune condizioni precise, come la segretezza dell’iniziativa.

Il lancio funzionò benissimo dal punto di vista tecnico: furono installate insegne luminose in diverse città americane, senza spiegazione ne contesto. L’obiettivo era quello di generare curiosità e interesse.

Purtroppo però, in un momento in cui le persone stavano vivendo un periodo di forte ansia a causa dei recenti avvenimenti accaduti (attentato alle Torri Gemelle ecc…), la novità fu accolta con panico. Nella città di Boston per esempio furono allertate le forze dell’ordine per segnalare un allarme bomba. In seguito, il blocco dei trasporti pubblici, di ponti e strade costò non solo il posto al responsabile marketing di Cartoon Network, ma anche un danno di 2 milioni di dollari usati per risarcire i costi dell’emergenza scatenata.

Insomma, è un bene riflettere sulla validità dell’iniziativa, ma anche sui rischi che potrebbe causare!

Quanto una campagna sa essere mostruosa?

 

TROPICANA 2009

Tropicana investì 35 milioni di dollari in una strategia di rebranding del proprio marchio. Nuovi logo e packaging per svecchiare l’immagine, il brand e la presenza sul mercato.

Ma… come reagì il pubblico quando l’iconica arancia con la cannuccia fu sostituita da un bicchiere di vetro colmo di spremuta? E al tappo della confezione che assunse la forma di un’arancia da spremere accompagnata dal nuovo payoff “Squeeze, it’s natural”?

In più la campagna pubblicitaria si concentrò proprio attorno al concetto di spremere o “stringere” reso dall’immagine di abbracci in famiglia, per richiamare il legame d’affetto tra marchio e payoff.

Purtroppo i risultati economici (e di posizionamento del brand) furono disastrosi. Il cambio d’immagine causò un calo delle vendite: il bicchiere uniformava Tropicana agli altri brand di succhi di frutta e cancellava il legame emotivo tra consumatore e l’arancia con la cannuccia. Il packaging modificato destabilizzò il cliente che non era più certo di acquistare la sua spremuta Tropicana.

E l’innovazione del tappo, infine, costata molto a livello economico, non ebbe il ritorno aspettato e quindi si tramutò in una evidente perdita.

Quale fu quindi la causa del fallimento? Una mancata analisi a monte del progetto. Non si considerarono la sensazione di smarrimento del consumatore, l’emotività e il gesto abitudinario e pieno di valore.

Così Tropicana annunciò presto il ritorno al packaging originario, riportando al pubblico la sua originale e amata spremuta.

Quanto una campagna sa essere mostruosa?

 

L’ERRORE DELLA PEPSI

In questo caso di flop l’errore sta nello slogan.

Pepsi è stata accusata di “giocare” con i valori delle persone. Lo spot proposto “Bere la Pepsi unisce e riappacifica” è andato oltre i limiti e ha causato il boicottaggio del lancio.

A parte l’etica e l’offesa, le persone hanno colto le parole espresse dallo slogan come una presa in giro: sfruttare una bevanda per aumentare i profitti di un’azienda multinazionale puntando su valori quali la pace o il razzismo…

Non solo: un pay off emozionale e “creativo” è davvero più efficace di uno pratico e concreto? Pepsi non ha mai superato Coca Cola anche per l’incostanza dei suoi messaggi pubblicitari e quindi un non riuscito (o mancato) posizionamento.

Già nel 1963 aveva tentato di conquistare il mercato cinese con un esaltante slogan “Prendete vita con Pepsi”. Complice la traduzione letterale non idonea al contesto a cui si sarebbe rivolta, ci si rivolse a un Paese intriso di valori tradizionali con uno slogan deplorevole e del tutto contrastante con le proprie origini: “Pepsi fa tornare i vostri antenati dalla morte”. Una mossa davvero poco furba!

I ravioli al cioccolato di Giovanni Rana: dal fallimento al successo

Vero anche che dagli sbagli si può imparare!

Una campagna fallimentare può diventare mostruosamente eccellente se analizzata e ridimensionata tenendo conto delle potenzialità che non manifestava, ma soprattutto preparando e guidando il pubblico verso la novità.

Cosa è successo 10 anni dopo ai tortellini al cioccolato di Giovanni Rana?

Prima

Nel 2009 il nuovo prodotto di Giovanni Rana si chiamava “Tortelli al cioccolato”. Dopo aver lanciato la frolla al cioccolato, prodotto innovativo per la gamma finora proposta al pubblico, i nuovi tortelli erano stati definiti dalla stessa azienda produttrice come “un inaspettato primo piatto”, venduto nel banco frigo accanto ai tradizionali ravioli salati, proponendo il cioccolato nell’impasto e nel cuore dei tortelli.

Il packaging dei tortelli dolci rispecchiava il colore del cioccolato, con la figura dell’imprenditore che ci “metteva la faccia” (come si usava fare) e banda dorata a sinonimo di eccellenza.

La campagna pubblicitaria promossa nel 2009 aveva coinvolto i media tradizionali, ma anche alcune partnership atipiche: le librerie Mondadori, dove si riceveva uno sconto per l’acquisto di una confezione di tortelli al cioccolato e in alcuni bar era disponibile una Promocard color cioccolato a forma di raviolo.

In ultimo, una considerazione va fatta sui gusti e le abitudini delle persone. Proporre un’innovazione tale in cucina si scontrava con un pubblico poco pronto, poco incline alla sperimentazione, più abituato a godere della quotidianità e tradizione, soprattutto in cucina.

La mossa di marketing risultò quindi azzardata, di senso incompiuto e destò molta titubanza senza ottenere il successo preventivato.

Quanto una campagna sa essere mostruosa?

Dopo

Nel 2020, dopo 10 anni dal semi flop, i tortelli al cioccolato tornano nei frigo con nuova forma e nuovo nome. Con quale risultato? Sono andati a ruba!

L’esempio di “diversificazione” del prodotto più tradizionale fu chiarito ed esplicitato in modo preciso e non fu frainteso, anzi, apprezzato proprio per la novità proposta.

In che modo? Non solo ci furono cambiamenti oggettivi (naming, slogan), ma la strategia di comunicazione (reduce dal fallimento) fu ripensata in toto.

Il packaging riprese i colori del cioccolato, ma la grande importanza e differenza fu la nuova confezione che mise in primo piano i blocchi di cioccolato insieme ai ravioli impiattati su una base di frolla.

Inoltre, lo slogan fu chiarito: “un inaspettato primo piatto” divenne “il dessert che non ti aspetti” e apparve sulla confezione.

I ravioli quindi si connotarono come dolci, nell’area dessert e torte e con l’appellativo “limited edition” facendo leva sul principio di scarsità.

Grazie all’influencer marketing si mostrò sui canali social come il prodotto poteva essere cucinato. Tutorial, stories e live sono stati la marcia in più!

Infine, la voglia di provare, di cimentarsi in cucina e improvvisarsi chef (di dolci inaspettati) accese la curiosità e l’entusiasmo di un pubblico pronto a mettersi in gioco. Un pubblico abituato alla sfida e molto più pronto a uscire dalla propria zona di comfort, educati da programmi che da qualche anno ci regalano viaggi emozionali e sensoriali, del tutto nuovi rispetto a dieci anni fa!

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