Nel web moderno dominano contenuti iper-condivisibili, emozioni sintetiche e format lampo: su TikTok, Instagram e YouTube Shorts – solo per citare alcuni canali –  non vince chi comunica meglio, ma chi “vibra” nel modo giusto

In questo scenario, l’AI diviene un interprete culturale: osserva, ascolta e restituisce la forma più adatta del messaggio. Da qui nasce il Vibe Marketing: un marketing sensibile, adattivo, figlio diretto del modo in cui oggi consumiamo contenuti.

Ma il ‘Vibe Marketing’ nasconde anche un pericolo: quello di un marketing superficiale, privo di strategia e competenza, che può danneggiare seriamente la reputazione di un brand. Lo vediamo in questo articolo.

Cos’è il Vibe Marketing e perché tutti ne parlano

Il Vibe Marketing è un approccio emergente che punta a intercettare e replicare il tono emotivo di un contesto digitale per creare contenuti che “risuonano” con il pubblico. 

A differenza del marketing tradizionale, centrato su dati, performance e targetizzazione, il Vibe Marketing lavora sul piano percettivo: analizza cosa si muove nel sentiment collettivo — atmosfere, tendenze, micro-movimenti culturali — e genera contenuti che sembrano autenticamente “in vibe” con ciò che sta succedendo online.

Il termine ha iniziato a circolare prima in ambito creativo e poi nel mondo del digital marketing, diventando mainstream tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Il boom è stato accelerato dall’utilizzo massivo di intelligenza artificiale generativa nei flussi di lavoro: oggi i contenuti vengono generati, testati e pubblicati in pochi secondi, ma quello che fa davvero la differenza è la vibe — cioè la capacità di sentire e restituire l’atmosfera giusta nel momento giusto.

Tuttavia, è fondamentale non cadere nella trappola di pensare che l’AI possa sostituire la competenza umana. Un marketing basato solo sulla ‘vibe’, senza una solida strategia e una profonda comprensione del mercato, rischia di essere inefficace e dannoso.

Come è nato il Vibe Coding

Prima che il marketing diventasse “vibrante”, lo è diventato il codice. Il concetto di Vibe Coding è nato come fenomeno tecnico-culturale nei laboratori dove si sviluppano i grandi modelli linguistici e multimodali, come Copilot, GPT-4.5, Claude o Sora. All’inizio, questi strumenti erano progettati per generare codice in modo efficiente, risolvendo task funzionali come “scrivimi una funzione in Python che ordina una lista”.

Ma i risultati più interessanti sono arrivati quando i programmatori hanno capito che l’AI era in grado di “interpretare” anche lo stile, l’umore e il tono del codice. Bastava chiederle: “scrivimi una funzione che sembri scritta da un developer senior con stile ironico” — e il modello rispondeva con codice funzionante, ma anche “caratterizzato”. La vibe, appunto.

Questo è stato il passaggio critico: la macchina non si limitava a eseguire un compito, ma ne interpretava il contesto creativo. Il Vibe Coding ha mostrato che l’intelligenza artificiale può apprendere non solo cosa fare, ma come farlo in base all’atmosfera richiesta. E se può farlo col codice, può farlo anche con un post social, uno script video, una headline pubblicitaria.

Da qui la transizione verso il Vibe Marketing è stata naturale. Se un modello sa adattarsi a un linguaggio tecnico in modo emotivo, può farlo anche con il linguaggio della comunicazione. 

L’AI diventa così non solo un assistente, ma un mood designer: sente cosa c’è nell’aria e produce contenuti in sintonia.

Tutto favoloso? 

Non proprio: così come l’AI può generare codice ‘caratterizzato’ ma potenzialmente inefficiente, può anche creare contenuti ‘in vibe’ ma privi di sostanza e strategia, portando a un marketing superficiale e non professionale.

Dal codice al contenuto: l’evoluzione naturale verso il vibe marketing

Il passaggio dal Vibe Coding al Vibe Marketing è stato tanto naturale quanto inevitabile. 

Se l’AI è in grado di scrivere codice con uno “stile”, può fare lo stesso con qualsiasi tipo di contenuto. 

I modelli linguistici e multimodali — come GPT-4.5, Gemini, Claude o Sora — hanno imparato a generare testi, immagini, audio e video che non si limitano a rispondere a una richiesta, ma che ne colgono l’essenza emozionale. 

Non solo cosa dire, ma come dirlo per entrare in risonanza con l’audience.

Questo cambiamento è stato favorito dal perfezionamento degli algoritmi che apprendono il contesto, il tono e il ritmo emotivo dei contenuti virali. 

Oggi un prompt come “crea un carosello Instagram in stile elegante, rassicurante e con vibe riflessiva” produce risultati coerenti con un’identità emotiva precisa, senza bisogno di spiegare tecnicamente cosa si intenda per “vibe riflessiva”. 

L’AI ha interiorizzato una grammatica sensoriale della comunicazione digitale.

In pratica, i modelli non traducono più semplicemente input testuali in output linguistici, ma processano pattern semantici, visivi ed emozionali per costruire contenuti che funzionano nel contesto in cui saranno pubblicati. 

È questo che ha aperto la strada al Vibe Marketing: un marketing che non insegue solo i dati, ma anche le emozioni diffuse, i sentimenti collettivi, le atmosfere condivise.

L’AI entra in scena con il marketing automatizzato

Oggi siamo già oltre la teoria: piattaforme come DigitalFirst, Anakin, Canva Magic Write, e molte altre, offrono strumenti per generare contenuti in tempo reale, con vibe coerenti al contesto, al target e al canale. 

Significa che oltre a scegliere una palette colori (giusto per fare un esempio), si può definire il tono emotivo complessivo di una campagna. 

E farlo in modo automatico, dinamico, contestuale.

L’intelligenza artificiale entra così in una nuova fase: quella in cui è in grado di suggerire — o addirittura decidere — come un brand dovrebbe comunicare in base all’umore prevalente online, alle reazioni del pubblico, alla stagionalità, o all’estetica di tendenza. 

Il messaggio non è più “giusto” in senso assoluto, ma efficace perché vibra nella stessa frequenza del feed in cui viene immerso.

“Azzeccare la vibe” oggi vuol dire intercettare con precisione quel mix sottile di tono, forma, visual e messaggio che rende un contenuto immediatamente riconoscibile, desiderabile, condivisibile. 

Significa entrare nel flusso dell’attenzione senza forzare, ma con naturalezza. 

Ed è qui che l’AI fa la differenza: analizza in tempo reale migliaia di segnali deboli e restituisce output che sembrano creati da chi vive dentro quel mondo, anche se in realtà sono stati generati in pochi secondi da un algoritmo.

Quando è la macchina a scegliere la vibe: vantaggi e opportunità

Nel marketing generativo, uno dei cambiamenti più significativi è che l’intelligenza artificiale non si limita a eseguire un brief: oggi è in grado di interpretare il contesto e scegliere la vibe più adatta per un messaggio, ovvero quel tono emozionale e quella cifra estetica capaci di entrare in sintonia con il momento culturale specifico.

Grazie all’analisi in tempo reale di enormi volumi di dati, l’AI può prevedere quale stile comunicativo avrà più impatto su un determinato pubblico. Questo consente un vantaggio strategico non da poco: comunicare con tempestività, coerenza e risonanza emotiva, adattandosi ai trend e allo zeitgeist digitale. 

La coerenza è uno dei primi benefici: l’AI garantisce che su ogni canale — sito, newsletter, social, campagne — il tono sia allineato. Non solo: la scalabilità che ne deriva è rivoluzionaria. Dove prima servivano team dedicati e tempi lunghi, oggi si possono produrre in poche ore decine di contenuti di qualità, pronti per essere diffusi.

Altro punto di forza è la reattività. L’AI riesce a intercettare mutamenti di sentiment e trend emergenti in tempi rapidissimi. Se cambia il clima emotivo online, cambiano anche tono e messaggi. Questa flessibilità permette di restare sempre sul pezzo, evitando comunicazioni fuori tempo o disallineate.

Inoltre, la personalizzazione dinamica consente di adattare lo stile a nicchie specifiche, parlando a pubblici diversi con contenuti diversificati ma coerenti. Per le startup o i piccoli brand con poche risorse, questa è una leva fondamentale per emergere.

Ma tutto questo comporta anche rischi molto seri, spesso sottovalutati. Il primo pericolo è l’automatismo senza strategia. Delegare completamente la creazione della vibe all’AI, senza una supervisione consapevole da parte del marketer, può generare contenuti superficiali, generici o persino dannosi per il brand.

Un’intelligenza artificiale può essere veloce e coerente, ma non ha visione di marca, sensibilità culturale profonda o comprensione dei valori di lungo periodo. Il rischio è quello di rincorrere continuamente i trend più virali senza una direzione strategica chiara, perdendo unicità e autorevolezza. 

L’omologazione è dietro l’angolo: brand diversi iniziano a somigliarsi, a dire le stesse cose, con le stesse immagini e lo stesso tono emotivo.

Inoltre, se chi guida l’AI non ha competenze solide, la macchina finirà per replicare ciò che trova online, amplificando errori, bias e cliché emotivi. Un marketer che si limita a premere “genera” sta abdicando al suo ruolo di guida, rischiando di trasformare un’opportunità tecnologica in un danno reputazionale. 

L’effetto? 

Contenuti efficienti ma vuoti, che non lasciano il segno, che non costruiscono un’identità.

L’intelligenza artificiale è una leva potente, ma va guidata con competenza, visione e senso critico. 

Altrimenti, la vibe non è più una scelta strategica: diventa un effetto collaterale.

Dalla coerenza all’omologazione: i rischi del Vibe Marketing

Ma non è tutto oro quel che vibra. 

Se da un lato il Vibe Marketing promette contenuti perfettamente allineati al contesto e all’audience, dall’altro rischia di generare un pericoloso appiattimento. 

Quando sono le macchine a scegliere sistematicamente la vibe, i contenuti iniziano ad assomigliarsi tra loro: stessi colori, stesse musiche, stesse caption, stessi tagli visivi. 

È il cosiddetto effetto look alike content — una creatività generica, facilmente riconoscibile come “generata”.

Questo effetto può portare a una perdita di unicità, soprattutto per i brand che non hanno un’identità forte o non supervisionano in modo strategico la produzione di contenuti. 

Quando il marketing è guidato solo dall’AI e non da professionisti competenti, il rischio di omologazione aumenta esponenzialmente. In assenza di una guida esperta, l’intelligenza artificiale tende a replicare i pattern più frequenti e “di successo” che trova nei dati, producendo contenuti prevedibili e stereotipati. I contenuti diventano tutti uguali, privi di originalità e incapaci di distinguersi, danneggiando l’identità del brand. Un professionista del marketing, invece, sa come bilanciare l’efficacia immediata con la costruzione di un’identità unica e duratura. Sa come utilizzare l’AI come strumento, non come sostituto della creatività e della strategia.

Inoltre, c’è una tendenza crescente a inseguire trend effimeri — suoni, meme, espressioni — senza costruire una narrazione solida e duratura. Quando l’AI è usata solo per rincorrere l’algoritmo, il rischio è perdere la bussola del brand e produrre contenuti privi di visione. La creatività diventa una reazione automatica, e non più un atto intenzionale. Affidarsi unicamente all’AI, senza una direzione strategica, trasforma il marketing in un mero inseguimento di ciò che è popolare, anziché in un’espressione autentica del brand.

Infine, l’affidarsi completamente a pattern generati può inibire la sperimentazione. In un panorama dove tutto funziona secondo ottimizzazione e benchmark, diventa difficile sorprendere davvero, rompere gli schemi, innovare il linguaggio. Il paradosso è che più il contenuto è “perfettamente in vibe”, meno è sorprendente. Senza la guida di professionisti che comprendano l’importanza dell’innovazione e della sperimentazione, il marketing generativo rischia di intrappolare i brand in un ciclo di contenuti ripetitivi e insipidi.

Il paradosso è che più il contenuto è “perfettamente in vibe”, meno è sorprendente.

Bias algoritmici e stereotipi emotivi: il lato oscuro della generazione automatica

Quando l’intelligenza artificiale genera contenuti basandosi sulle “vibe” più adatte a un determinato pubblico, lo fa attingendo a dataset preesistenti, spesso provenienti da ambienti digitali popolati da stereotipi, generalizzazioni e schemi culturali dominanti. 

Il risultato? 

La creatività automatica rischia di diventare una lente deformante che riflette e amplifica pregiudizi inconsapevoli.

I bias più comuni riguardano il genere (contenuti “emozionali” affidati a volti e voci femminili, mentre quelli “decisionali” assumono connotati maschili), l’etnia (con rappresentazioni poco inclusive o standardizzate), e l’emotività (dove “felicità” significa sempre sorrisi a 32 denti, luce naturale e musica chill). 

Una tale codificazione emotiva standardizzata porta alla creazione di contenuti falsamente empatici: emozioni simulate, confezionate per piacere, ma prive di profondità.

È qui che entra in gioco il ruolo dell’essere umano. 

I bias sono amplificati dalla mancanza di supervisione umana competente. Un marketer esperto saprebbe riconoscere e correggere questi errori, mentre un approccio superficiale e non professionale li lascerebbe passare, con conseguenze negative sull’immagine del brand.

Il contenuto generato automaticamente non può essere pubblicato senza filtro: serve una fase di supervisione, contestualizzazione e, se necessario, correzione. 

Il marketer non è un semplice “utente finale” della tecnologia, ma un controllore etico e strategico della comunicazione. Ignorare questo ruolo significa rinunciare alla responsabilità comunicativa e lasciare che l’AI parli al nostro posto — e con le sue parole.

La nuova sfida del marketer: guidare la vibe, non subirla

Quando la velocità di pubblicazione conta più della profondità del messaggio, l’automazione può diventare una trappola. 

Se affidiamo completamente all’AI la scelta della “vibe”, rischiamo di subire un flusso continuo di contenuti perfetti sulla carta, ma privi di identità reale. 

Il Vibe Marketing non può essere solo una somma di stimoli generati al volo: ha bisogno di direzione.

Ecco perché il marketer oggi deve diventare un “direttore d’orchestra”, capace di guidare l’AI, non di farsi guidare. Deve avere una visione strategica, una profonda conoscenza del mercato e del pubblico, e la capacità di interpretare e adattare le ‘vibe’ generate dall’AI.”

Non basta selezionare un template o un’emozione target: bisogna decidere perché usarla, quando usarla e come renderla coerente con la narrazione del brand.

A supportare questa nuova responsabilità, emerge una skill fondamentale: il prompt design strategico. Non si tratta solo di scrivere una richiesta efficace, ma di costruire una relazione intelligente tra l’obiettivo di marketing e l’output dell’AI. 

Il prompt diventa una leva di controllo creativo, uno strumento per trasmettere sfumature, valori, stile.

Come non perdere il controllo creativo nel marketing generativo

L’uso dell’intelligenza artificiale nella comunicazione apre scenari ricchi di potenzialità, ma impone una domanda cruciale: come evitare che l’identità del brand si dissolva in un mare di contenuti generici? 

La risposta passa attraverso un approccio consapevole e progettuale alla generazione automatica.

Prima di tutto, è essenziale definire una brand voice style guide: un documento che racchiuda tono, stile, linguaggio e valori del brand, utile per addestrare e orientare i tool AI. Questo permette all’intelligenza artificiale di produrre testi o visual coerenti non solo con l’obiettivo di engagement, ma anche con l’identità narrativa dell’azienda.

In secondo luogo, serve un prompting avanzato, pensato come un dialogo iterativo e riflessivo con l’AI. Non ci si limita a chiedere “scrivi un post emozionale”, ma si fornisce contesto, obiettivi, riferimenti culturali e limiti da rispettare. In questo modo, l’AI diventa un collaboratore creativo, non un generatore di copie in serie.

Infine, la co-creazione è la strada più promettente: affiancare l’AI al team creativo, utilizzandola per amplificare le idee, esplorare nuove soluzioni, testare direzioni alternative. Molti brand stanno già adottando questo approccio: mantengono il controllo strategico, ma sfruttano l’AI per velocizzare il lavoro senza rinunciare all’originalità.

Conclusione: il Vibe Marketing è umano solo se resta autentico

Il Vibe Marketing è destinato a crescere e a trasformare il modo in cui comunichiamo. Ma la sua efficacia non sta nella capacità di “funzionare” in termini di clic, impression o engagement. Sta nella capacità di lasciare il segno. E per farlo, serve autenticità, consapevolezza e una visione umana della comunicazione.

L’intelligenza artificiale è un alleato potente, ma non è infallibile. Può suggerire la vibe più adatta a un contesto, ma non può decidere se quella vibe rappresenta davvero ciò che siamo, ciò che vogliamo trasmettere, ciò che sentiamo. 

Questa responsabilità resta nelle mani del marketer.

Usare l’AI in modo strategico significa integrare tecnologia e sensibilità umana. Significa sfruttare la potenza generativa per creare esperienze coinvolgenti, ma anche vigilare affinché ogni contenuto sia rispettoso, autentico e riconoscibile. In un mondo dove tutto può essere generato, ciò che conta è ciò che scegliamo di generare.

Il Vibe Marketing, se guidato da questa consapevolezza, non è una minaccia per la creatività. È uno strumento potente, ma solo se usato con competenza e strategia. Affidarsi ciecamente all’AI senza una solida base professionale porta a un marketing superficiale, inefficace e potenzialmente dannoso per il brand.

 

.

Condividi l'articolo

Iscriviti alla nostra newsletter
per non perdere tutte le novità!

Rimani aggiornato sulle principali evoluzioni della comunicazione online e del digital marketing.

Riceverai periodicamente delle comunicazioni al tuo indirizzo di posta elettronica.

Blog

Scopri ciò che ci appassiona, le nostre storie e le nostre competenze.
Lasciati ispirare dal nostro OTO Blog!